Video installazione a cura di Maria Teresa Annarumma
Opening 30 giugno 2022 h.19.00
Complesso Museale Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco Via dei Tribunali 39- Napoli
Durante la pandemia migliaia di donne hanno perso il lavoro (il 98% delle persone licenziate in Italia sono donne e si calcola che nel mondo le donne abbiano perso circa $800 bilioni in reddito) e fra queste, molte sono state caricate di ulteriori responsabilità per colmare le lacune del welfare nazionale (la serie di lock-downs hanno costretto molte donne ad essere le uniche a prendersi cura dei propri figli o dei propri genitori anziani o malati). Oggi, stiamo vivendo il tempo di una nuova guerra nel cuore dell’Europa in cui vediamo uomini contro uomini, uomini che negoziano, uomini che cercano di scappare ma respinti e costretti ad andare in guerra da altri uomini. E le donne? Le donne scappano con i loro figli, le donne aspettano, e le donne sono solo parte dello scenario bellico. Si tratta di una situazione che abbiamo visto molte volte nel corso dei secoli. È una scena che mia madre ha conosciuto da bambina e da cui io sono stata risparmiata.
La vita delle donne è da sempre e lungo i secoli, sottoposta a pressioni, sebbene queste si possano differenziare a seconda dei contesti. Hanno avuto bisogno di combattere strutture sociali, economiche e politiche che hanno messo da parte la partecipazione femminile e perpetuato lo sfruttamento del loro lavoro (domestico e non).
Oggi nella nostra società, si è soliti immaginare la donna come emancipata e libera di modellare la propria vita così come preferisce ma, naturalmente, la realtà quotidiana per la gran maggioranza delle donne è molto diversa. Molta della vita quotidiana è una corsa ad ostacoli in cui i problemi sociali, economici e politici sono presenti, persino in quelle società che per cultura e politica sociale consideriamo più avanzate. Per esempio, se si è quasi universalmente affermato il libero accesso al lavoro (pur consapevoli che ci sono diverse parti del mondo in cui questo non avviene), per scelte politiche ed economiche, non possiamo evitare di notare che comunque c’è ancora una differenza nei salari fra uomini e donne.
Ma se siamo tutti più o meno consapevoli delle disparità di trattamento economico sul lavoro, o che le donne siano ancora molto spesso vittime di una doppia morale nella società in cui sono ancora largamente giudicate per le loro scelte sessuali o per il loro abbigliamento ( pensiamo a come questo elemento sia posto sotto la lente di ingrandimento nei giudizi per violenze sessuali, ritenendo un abito troppo corto o i contenuti espliciti di un messaggio telefonico, motivo per una giudizio meno severo nei confronti del violentatori), credo che sia ancora più importante prestare attenzione agli sforzi quotidiani che le donne sono abituate ad affrontare solo per arrivare ad avere le stesse opportunità di un uomo: quante volte dobbiamo ancora vedere una donna dover scegliere fra lavoro o famiglia? Quante volte ancora le donne devono supplire ad una carenza di welfare per la cura dei propri figli o dei propri genitori anziani? E ancora, quante volte dobbiamo ancora vedere i piani aziendali di ridimensionamento scegliere le donne come prime persone da licenziare? In queste decisioni quotidiane si può notare, come in molte altre come queste, lo squilibrio e la diseguaglianza che ancora persiste e che deforma le vite delle donne, le loro speranze ma, allo stesso tempo, le speranza di tutta una società.
Tutto noi abbiamo avuto esperienza diretta o indiretta di situazioni di disuguaglianza di genere, è tristemente evidente che questa ingiustizia sociale sia comunemente accettata come normalità, forse deprecabile, ma considerata “così come vanno le cose”. Dopo “l’epoca d’oro” dei movimenti femministi e le tante conquiste ottenute, non abbiamo visto una rivoluzione culturale generale. Invece, abbiamo assistito ad una progressiva polarizzazione della lotta femminile su una agenda personalistica e quindi, solo recuperata o contenuta per l’assenza di una volontà collettiva.
L’attenzione sulla questione femminile ristagna nella familiarità di un discorso, nella recessione economica, nella prossima grande sfida che ha la priorità, nella disuguaglianza di genere e nella presunzione che tutto sia cambiato quando, guardandoci intorno, forse i look, l’abbigliamento, i significati non sono più gli stessi ma, molto di quello in cui avevamo sperato rimane incompiuto, lasciando il mondo sempre lo stesso. La promessa di sviluppo dovuta alla domanda economica della società per una forza lavoro molto più preparata, o l’idea che l’applicazione delle nuove tecnologie avrebbe liberato le donne da molti dei loro impegni a casa, in famiglia o nei luoghi di lavoro o persino nella loro vita sentimentale e nel piacere tramite le app, in realtà porta con sé nuove condizioni che comunque sono molto vicine alla condizione della donna del passato.
La pandemia e la crisi economica e sociale che ne è seguita hanno mostrato come fosse solo una chimera il credo in questa nuova società costruita sull’idea che le nuove tecnologie avrebbero liberato le persone: le nuove libertà e i benefici hanno aperto nuovi tipi di gabbie, nuove forme di brutalità e le solite vecchie diseguaglianze ma forse, anche più estreme. È stata la prima volta dall’inizio della società industrializzata e della sua globalizzazione, che la produzione è stata ridimensionata ovunque per via dei lockdown ed i lavoratori costretti a rimanere a casa divenendo così alle dipendenze di una tecnologia che da un lato, li ha resi operativi e dall’altro, ha creato nuove e più severe forme di subalternità. Ciò non solo ha sviluppato nuove forme di sfruttamento dei lavoratori, le cui conseguenze sono ancora tutte da verificare, ma ha polarizzato le individualità – isolando ancora di più le madri – la carriera, i lavoratori da casa, creando sempre più tipologie di lavoro a chiamata, forme di lavoro che possono essere di un giorno o una settimana lavorativa. Forse emerge per la prima volta, dall’isolamento che molti di noi hanno vissuto, un mondo che suscita un senso di pericolo personale e sociale, che fa sentire i sentimenti, le vite delle famiglie, gli amici, i vicini, come i lavoratori, dentro un alone di presente precario. C’è sia la memoria di un passato molto recente, che la presenza di una ferita collettiva e sociale. Durante questo periodo, abbiamo assistito ovunque e attraverso tutta la società al bisogno di cura e di relazioni: la cura che molti non hanno ricevuto per i limiti alle relazioni sociali e la cura di cui molti altri avevano bisogno per via degli effetti della pandemia. Il progetto Comizi di Donne, di cui questa tappa è la sua parte finale, è partito con Pier Paolo Pasolini e la sua scelta fondamentale di attenzione verso la vita e le vite troppo a lungo tralasciate. Da ciò abbiamo messo in relazione il pensiero di Pasolini con quello di Fernand Braudel e gli storici sociali della “longue durée”. Questo lavoro pone come base un’idea di storia che si forma sulle vicende quotidiane delle vite di ciascuno e non, come si è soliti pensare, una cronaca di eventi, di uomini importanti o di grandi vittorie. Per Braudel la storia, come narrazione del quotidiano, è la storia del mondo, quella che sostiene le esistenze e di cui i grandi eventi ne sono solo una parte e comunque, non la parte più significante.
“Comizi di Donne” ambisce alle rivoluzionarie possibilità su cosa l’arte può essere, su come può agire avendo noi come protagonisti nel suo realizzarsi. E nel fare ciò, proponiamo anche una lettura rivoluzionaria della storia di Napoli e delle donne napoletane, sostenendo l’ipotesi di una Nuova Repubblica Napoletana: la Repubblica delle Donne, una tappa che abbiamo già intravisto nelle voci delle donne della installazione sonora di Marco Messina che ha segnato nella sua rivoluzionaria dichiarazione, il passaggio dal passato di Pasolini e Braudel, verso un contestato presente.
Naturalmente, Napoli è la città dove si è realizzato questo progetto ma, credo anche che nella storia di questa città e della prima Repubblica Napoletna, così come nella storia di parte del femminismo napoletano, sia possibile trarne ispirazione per una diversa consapevolezza comune.
Questo è l’intento di Comizi di Donne: un’arte sensibile fatta di cura e di relazione ed una nuova Repubblica di Napoli
Perché Napoli
Background storico
Napoli ha diversi aspetti storici e sociali che posso considerarsi particolarmente utili alla nostra narrazione. La rivoluzione e la costituzione della Repubblica di Napoli nel 1799, sebbene possa essere percepito come un evento lontano nel tempo, ha diversi aspetti significativi per la nostra storia e in particolare uno: nonostante fosse una rivoluzione innescata da una elite di intellettuali, era tutta incentrata sull’idea che ogni democrazia dovesse avere come nucleo centrale l’educazione dei propri cittadini. Coloro che in seguito saranno definiti proletariato. L’ironia volle che questa repubblica, fondata sul principio del necessario processo di emancipazione dei cittadini, fu sovvertita proprio dalla mano di quei cittadini per i quali era stata immaginata, persone manipolate dalla deposta monarchia che li separò dalla rivoluzione e li spinse a destituirla. Con questi moti, si aprì un fatale percorso di ritorno al precedente e sempre più corrotto regime, che durò fino alla seconda metà del secolo successivo e che, agevolò un’altrettanta equivoca rivoluzione che porterà allo sminuimento del ruolo di Napoli e del suo mondo.
Guardando a questa storia, insieme al percorso dei movimenti femministi della fine del XX secolo a Napoli, possiamo vedere diverse esperienze parallele, nonostante i due secoli che li separano, dandoci forse l’opportunità di una diversa comprensione storica. Proprio per questi motivi, il nostro percorso è iniziato con l’associazione “Madrigale per Lucia”, con quella parte di storia napoletana che ritengo essere una parte importante del femminismo italiano e che si riflette nella vita di Lucia Mastrodomenico e nella storia della “Mensa dei Bambini Proletari” di cui è stata una delle fondatrici.
Un laboratorio di attivismo nato nel 1973, la Mensa ha mostrato nei suoi dieci anni di vita, che l’impegno politico deve necessariamente trovare risposte pragmatiche capaci di rispondere ai bisogni della gente. Fu istituita da un gruppo di intellettuali di sinistra che decisero di sfidare la difficile realtà di quello che un tempo era uno dei quartieri più poveri di Napoli (nutrendo e educando ogni giorno centinaia di bambini). Con esso, sperimentarono una forma di femminismo che guardava senza illusioni o pregiudizi alla vita quotidiana delle donne, nel tentativo di capire in modo pragmatico, come avrebbero potuto aiutarle per liberarle dalla battaglia quotidiana per sopravvivere.
La storia della “Mensa” può mostrarci che, quando al centro di un approccio femminista alla società c’è un’interpretazione delle peculiarità femminili, come quelle della cura e dell’attenzione alle relazioni, peculiarità da sempre riconosciute, sia possibile vedere modi alternativi di guardare alla vita quotidiana capaci di liberare le donne da molti dei pesi che sono costrette a sostenere. Un cambiamento che può fare una grande differenze per la vita di ciascuno come quella di una comunità. Infatti, attraverso la testimonianza di alcune delle protagoniste di quella storia (tra cui Cinzia Mastrodomenico), vedremo che l’educazione, la cura e l’attenzione alle relazioni che sono ancora una parte significante della vita delle donne, possiamo avere strumenti democratici capaci di formare una nuova società, così come si sperava per la prima Repubblica Napoletana.
In realtà, si può anche immaginare che il mancato riconoscimento di questa parte dell’esperienza femminile, fin troppo tralasciata, possa essere una delle ragioni per cui la rivoluzione culturale sperata dal femminismo ha avuto risultati incompleti. Un motivo di questa incompleta rivoluzione, forse, può anche essere rintracciato nella distanza che gli intellettuali mantenevano dai semplici problemi che le donne affrontano e da cui molte intellettuali impegnate erano distanti per via della loro educazione, condizione sociale o sicurezze familiari, nonostante il loro impegno sincero. Naturalmente, è anche vero che queste problematiche non vanno ricondotte solo alle questioni di classe sociali o disuguaglianza, il dibattito continua, ed anche aspramente, intorno ad aspetti quali quelli razziali ed etnici, quelli delle diversità culturali, religiose o storiche. Infatti, tutto ciò che ci separa e intrappola in un circolo vizioso di speranza disattese, ha radici profonde.
Nuova Repubblica Napoletana di Messina ha affermato che, mentre le grandi premesse e possibilità della prima Repubblica Napoletana erano nella forza della sua gente, alla fine entrambe furono tradite ma, la sua base ed i principi sostenuti furono e possono essere indirizati verso le donne, sia collettivamente che singolarmente. Si tratta di questa parte essenziale e nascosta della società che in passato, avremmo visto nel proletariato ma che oggi, in virtù dello sfruttamento capitalistico, non possiamo identificare con una categoria lavorativa ma in questa altra parte nascosta nel suo contributo sociale essenziale. Possiamo scegliere di svegliare le coscienze sulla condizione femminile e credere in un cambiamento sociale rivoluzionario.
Un altro elemento che risalta da Nuova Repubblica Napoletana, così come dalle altre storie di cui ho parlato e che andremo ad ascoltare in Comizi di Donne, è un’attitudine probabilemente tutta napoletana: una incapacità diffusa di guardare oltre al presente ed al passato, mostrando una totale cecità verso il futuro. Allo stesso tempo però la tradizione e, naturalmente anche la superstizione, sono parte della vita quotidiana ed in costante dialogo con l’esperienza di ciascun abitante di questa città. C’è come un costante senso di impossibilità di un orizzonte, come una consapevolezza che sia inutile pianificare per un futuro e che, tutte le esperienze nascono e finiscono nel momento che si vivono.
La regola generale è quella di prendere il meglio possibile dal presente senza pensare troppo alle conseguenze di quelle scelte.
Ma l’essere donna riguarda la creazione e il futuro! Possiamo immaginare che questa propensione culturale e sociale cieca verso il futuro, sia proprio dovuta alla rimozione e negazione della verità sulla condizione femminile che ancora oggi cerca invano un riconoscimento sociale, culturale e politico?
Motivi culturali
Pasolini nutriva un curioso affetto per Napoli, tanto da scrivere quasi cinquant’anni fa: Benché sia ormai un po’ di tempo che non vengo a Napoli, i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono appunto, in concreto, e, per di più, ideologicamente simpatici. Essi infatti in questi anni- e, per la precisione, in questo decennio- non sono cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. (…) (Lettere Luterane, pag. 27-28, 1976). Quello che molto probabilmente Pasolini descriveva era l’attitudine drammatica, diretta e forse anche teatrale con cui i napoletani sono soliti vivere, senza filtri, persino oltre la sola forma espressiva.
Napoli, in termini di sviluppo urbano, non ha al suo centro una netta separazione fra quartieri in base alle classi sociali: in molti casi, è possibile che persone agiate e più modeste vivano, non solo nello stesso quartiere ma, anche nello stesso edificio (ci sono quartieri dove questa separazione esiste ma, non sono al centro città). Questa coabitazione, insieme all’alta densità abitativa della città, agevola una espressività estrema dovuta ai necessari tentativi che ciascuno fa per superare le differenze culturali con il proprio vicino. La diversità è, o è stata, benvenuta (come succede in ogni città con un porto) ma insieme a questo dato, c’è l’effettiva impossibilità per i cittadini di crearsi una bolla di protezione, di separazione intorno ai quartieri agiati, cosa che invece risulta possibile in altre città contemporanee.
Infatti, questa “teatralità” è considerata da molti una delle influenze culturali che Napoli ha dettato nella cultura italiana nel primo XIX secolo ed è importante ricordare che, questa città ha svolto un ruolo culturale determinante in Italia nel periodo del dopoguerra, per lo sviluppo del Neorealismo nel cinema e del suo approccio alla società ed alla storia. Neorealismo che ha certamente formato il cinema di Pasolini e di conseguenza anche Comizi di Donne.
Napoli, fino alla Prima Guerra Mondiale (fino a quando Mussolini non decise di costruire Cinecittà a Roma) era il centro italiano della produzione cinematografica. I primi “studios”, la “Partenope Film”, erano napoletani. La città aveva un illustre passato e presente fatto di teatro, produzioni e avanspettacolo, nonché le strutture adatte a supportare questa industria in fase di sviluppo ed era anche un centro vivace di produzione musicale con le canzoni napoletane (che sono ancora famose in tutto il mondo). I film che venivano prodotti in questi studi erano basati su storie di ingiustizia sociale e di realtà che erano familiari al pubblico del tempo. Infatti, non è un caso che il napoletano Peppino Amato, cresciuto a Napoli come attore e poi diventato produttore a Roma, sia colui che ha aiutato Vittorio De Sica nella sua carriera e abbia supportato autori come Roberto Rossellini.
Il modo di vivere napoletano, forse anche fin troppo teatrale, fa parte del patrimonio del cinema italiano, così come lo è stato per il teatro e per la canzone popolare e tutto ciò, fa parte del background che influenzò profondamente Pasolini e la sua visione di realismo ed in particolare, i suoi “Comizi d’Amore”, che sono il mio punto di riferimento per questo lavoro. Fu un film in cui Pasolini, viaggiando lungo tutta la penisola, domandava alle persone dell’amore, argomento che lui riteneva una delle parti più sensibili dell’essere umano e che dava la possibilità di percepire i cambiamenti sociali in una maniera che altre tematiche non avrebbero permesso.
“Comizi d’Amore” è una lettura della storia legata al lavoro di storici sociali come Braudel. Può sembrare che tratti argomenti differenti da quelli affrontati da questi storici ma, ci sono paralleli significativi. Ambisce ad una idea di arte senza autore – o meglio dire ad uno spostamento autoriale- verso cui un artista come Grotowski ha cercato di virare lungo tutta la sua vita ed il suo lavoro, così come abbiamo esaminato precedentemente durante il nostro programma “Comizi d’Amore” è un film che guarda al presente vissuto, ascolta le persone, le cui voci e storie formano i significati che si sviluppano nella sua narrazione. Non si basa su un lavoro di documentazione antecedente ma, si forma attraverso coloro che parlano dell’amore e dei suoi effetti ed arriva a descrivere una società e il mondo che condividiamo e che in questo modo si rivela, da un lato familiare ma, anche profondamente sconosciuto. Non è un film patinato e neanche sofisticato nel suo stile di ripresa ma, tocca corde che ancora oggi l’arte stenta ad affrontare. Chiede a noi spettatori un modo di approcciarlo ed una attenzione a cui non siamo soliti. Ci chiede di diventare parte della conversazione del film attraverso l’attenzione che ci sollecita. È un film che rende complici attraverso un nostro processo di identificazione nelle esperienze e nelle relazioni che ascoltiamo, aprendoci così ad una sensibilità condivisa. Ci domanda di essere aperti ad un linguaggio non familiare, un linguaggio dei sentimenti, di sensibilità e dell’essere in comune. È il precursore del nostro modo di percepire lo spazio comune e la comunità ma, lo fa attraverso la prospettiva rivoluzionaria di una estetica emotiva: identificazione, empatia e cura.
“Comizi di Donne”
Lungo diverse ore, Comizi di Donne è fatto di racconti intimi di vite, frammenti di altre vite, altre storie, storie di luoghi, di famiglie, di generazioni, di amicizia, storie di speranze e paure. Due cose avvengono lungo la durata del film: coloro che parlano diventano allo stesso tempo autrici e protagoniste delle loro storie che, sebbene molto personali, nel mentre che le raccontano, hanno la capacità di costruire una relazione che ci racconta delle comunità e della società.
Come accade tutto ciò? Forse può aiutarci l’analogia con la tessitura di un arazzo che può ricordarci il modo in cui la società si struttura, dove le singole vite sono i nodi che, intrecciati tra loro, creano un’immagine d’insieme più ampia che si realizza proprio attraverso la relazione fra i singoli. Ma è più di questo, la forza di ciascuna persona, percepita in relazione con le altre, da una parte afferma l’importanza del singolo e della storia personale ma dall’altra, ci obbliga a leggerla all’interno della vita comunitaria e dell’esperienza condivisa. Questa, non è certo visione del mondo molto condivisa a Napoli, città che si mostra molto spesso carente sul fronte dell’attivismo collettivo e di coscienza del bene comune, cose che altre società dimostrano di avere. È difficile immaginare Napoli come una città dove i legami sociali vadano oltre quelli familiari o di tifo per la squadra di calcio. Per questo motivo, guardare ad un presente tralasciato può essere sia l’inizio di un arazzo vivo di voci ed impressioni costruite lungo il tempo, sia un manifesto, una possibilità per una comunità a venire.
Questa non è la Napoli dei soliti stereotipi. Fatta di quotidiano, le voci delle donne di Comizi di Donne non sono le voci di persone lasciate ai margini, ma voci di donne coraggiose ed appassionate che affermano la loro presenza, la presenza in quel mondo che le ignora da troppo.
Proprio come Pasolini fa “Comizi d’Amore”, l’obiettivo è quello di cancellare ogni possibile forma di autorialità in modo da rendere le donne, all’interno della sfera di Comizi di Donne, autrici e protagoniste della loro storia personale e della storia in generale. Sarà il presente che parla attraverso le vite delle donne che combattono ogni giorno tra difficoltà economiche, sociali e culturali.
Tornando a Pasolini che ci ha ispirati per questo lavoro, per capire meglio la sua poetica narrativa dobbiamo guardare anche alla sua fascinazione per “I Racconti di Canterbury” di Geoffrey Chaucer e per il “Decameron” di Boccaccio. In entrambi i casi si tratta di racconti in cui, le circostanze sociali o economiche dei protagonisti, non sono determinanti per lo svolgimento della storia o per i suoi effetti. La narrazione si dipana senza nessuna interpretazione eroica ma, attraverso le esperienze vissute e l’accumulazione dei singoli racconti e frammenti di vita comune su cui, di volta in volta, si concentrano. Ciò che conta in questa lettura è la capacità di capire il mondo attraverso le relazioni che lo formano, così come l’attenzione verso i modi in cui le persone modellano le loro storie ed in questo modo, anche le nostre storie e la storia del mondo in cui viviamo. Si tratta di un concetto semplice ed allo stesso tempo complesso: tutti noi siamo consapevoli di come i grandi eventi possano influenzare le nostre vite, eventi come la guerra o la pandemia, persino nel nostro vivere quotidiano che è distante dagli scenari bellici. Anche quando ci sentiamo liberati dalla paura di una infezione o di una bomba, ci rimane un senso di inadeguatezza, di una capacità minima di dominare gli eventi. Ciò malgrado, nelle possibilità delle nostre vite, c’è un ampio spazio decisionale che riguarda la vita giorno per giorno e che, si realizza nell’area comune delle relazioni, del lavoro, degli sforzi condivisi e della perseveranza, quello che in senso ampio possiamo ritenere le fondamenta della società, la “storia profonda”, la “longue durée”, ciò che nel presente sconosciuto sostiene il mondo.
Nei pettegolezzi, nelle conversazioni e nelle relazioni quotidiane, c’è un presente tralasciato, un mondo che è spesso dimenticato perché con risonanze familiari, forse troppo ordinario, che è presente sullo sfondo ma, ritenuto di poco significato. Guardandolo, possiamo però scoprire un mondo che vive nella sua diversità, se prestiamo attenzione ai modi in cui stiamo insieme e raccontiamo il mondo, se guardiamo alle nostre relazioni e ci guardiamo reciprocamente. Un mondo emozionante nella sua tensione fra sconosciuto e conosciuto, fra cose riconoscibili e dissonanze, quelle cose che a mala pena notiamo perché poste ai margini delle nostre vite. Non sono eventi da telegiornale e possono apparire solo come una parte residuale dello scenario che abitiamo, cose non considerate perché parte di vite sconosciute, come il messaggiare o l’essere costantemente on-line con i nostri cellulari. Ma nell’ascoltare queste storie, l’una accanto all’altra così come lo sono nella nostra vita, vediamo emergere tracce di una società che esiste parallelamente a quella ufficiale, a quel mondo consolidato. Proprio come nella storia profonda di Braudel, esiste questa storia che si dipana parallelamente a quella dei re e delle regine, storie di potere e ricchezza ma, che è quella che sostiene il tutto.
Perché le voci delle donne nel loro quotidiano (quotidiano che condividiamo tutti) sono tra quelle più inascoltate di questa storia profonda, Comizi di Donne ci dà la cornice del perché della mancata rivoluzione culturale femminile e lo fa, guardando all’oggi, ascoltando le brevi testimonianze, le conversazioni, le speranze, così come la rabbia repressa ma anche la forte volontà di vita accompagnata ad una curiosa melanconia.
Questo è il materiale della nuova Repubblica Napoletana, una repubblica che finalmente parla a nome di tutti i suoi cittadini, egualmente.
Probabilmente, è possibile trovare una strada in questo tempo problematico che stiamo vivendo, se crediamo, come molti di noi fanno, che sia importante riconoscere e valorizzare le peculiarità e la forza della soggettività femminile, come la cura e la relazione, così come Lucia Mastodomenico sosteneva, ( caratteristiche che non sono semplici costrutti culturali, in un tempo in cui persino possedere un utero sembra essere parte di un relativismo imperante e non una caratteristica femminile e dell’umanità). Abbiamo bisogno di una lettura della storia che ci permetta di guardare a cosa sia necessario fare per liberare il potenziale del nostro presente. Abbiamo bisogno di una nuova sensibilità, una premura verso il presente che vive e continua sotto la superficie fatta di grandi eventi, drammi politici, pandemia e guerre.
Quindi la parte più difficile.
Relativamente a questi significati, c’è un modo di guardare all’arte che agisce e crea diversamente. Ci sono forme d’arte che ci chiedono una lettura familiare e, forme d’arte che invece domandano un’attenzione differente. Un’attenzione che ci rende consapevoli di essere parte di una conversazione. L’artista Craigie Horsfield, il cui pensiero mi ha aiutato alla realizzazione del progetto fin da principio, la descrive come un’attenzione affettiva, un modo di guardare e di ascoltare che ci apre alla cura. Un’attenzione che si connette a quella che la teorica femminista Bracha Ettinger ha chiamato “withness”, “un’essere con”, un’attenzione in cui anche noi siamo protagonisti, coinvolti e complici. Un’attenzione senza separazione o distanza. Lo sguardo verso il film è sempre lo stesso ma, quello che succede, lo rende differente per via di queste dinamiche che è capace di innescare.
La lunghezza: ho scritto già in precedenza, a proposito delle opere di lunga durata in occasione della installazione sonora di quattro ore di Marco Messina. Ho parlato del tipo di cambiamento che la lunga durata da alla lettura ed all’esperienza dell’arte. Per molti però, l’idea di doversi soffermare per ore a guardare o di poterne guardare solo una parte, come pure l’idea di dover ritornare per vedere il resto, è ancora un pensiero scomodo, perché percepito come un approccio interrotto all’opera, come nel caso di libri pubblicati con pagine removibili in modo che il lettore possa organizzare come crede la storia. In realtà, nel corso del ventesimo secolo e ancora oggi, i film di lunga durata sono sempre esistiti, da Abel Gance a Andy Warhol, ed ognuno di essi invitava ad una attenzione differente. Inoltre, la cosa è continuata con artisti molto diversi tra loro come Aleksandr Sokurov, Christian Marclay e Craigie Horsfield.
Nonostante questi antecedenti illustri, sono sicura che per molti di noi, il film potrà sembrare comunque troppo lungo a causa dell’abitudine a guardare video brevi attraverso i social media, o perché siamo abituati a vedere video d’arte contemporanea strutturati in loop o di pochi minuti, in modo da attirare l’attenzione dello spettatore senza distrazioni. Proprio questo costume imperante ha anche fatto nascere un timore generalizzato riguardo alla ridotta capacità di attenzione che questi nuovi media stanno incoraggiando ma, di tutta risposta, si sta diffondendo anche una dinamica differente, che riguarda il guardare di seguito tutti gli episodi di una serie in streaming, in cui la narrazione si sviluppa persino lungo decine di ore, superando in questo modo anche le più elaborate produzioni epiche hollywoodiane. Il c.d. binge watching che durante il periodo di pandemia ha fatto consumare giornate intere in isolamento. Certamente la durata di Comizi di Donne non guarda a nessuno di questi predecessori ma ha un background che ho ripetutamente analizzato in questo testo. Lo si può guardare per intero o solo in una sua parte, perché quello che conta è la volontà di incontrare, di dedicare del tempo ad una diversa consapevolezza verso la storia nascosta delle donne, una storia allo stesso tempo familiare ed estranea. C’è anche un altro effetto che potrebbe potrebbe sorgere dalla riflessione personale, dalla sovrapposizione di impressioni a pensieri: un senso di malinconia, di tristezza. Un sentimento che non viene dalle vivide storie che si ascoltano ma, dal sentire la propria storia personale in bilico fra sentimenti che sembrano inconciliabili.
Che senso ha tutto ciò oltre le descrizioni, la critica e le esortazioni? La sostanza e la sua tesi stanno nelle voci delle donne nel film che hanno creato loro stesse con le loro vite e, chiunque lo vedrà o si aprirà ad esso, porterà con sé la sua propria interpretazione e riflessione. Questa è la conseguenza vitale di una conversazione che vive e continua nel tempo.
“Comizi di Donne” ci mostra una storia profonda, la possibile scelta di un percorso rivoluzionario che chiede a tutti noi uno sforzo di consapevolezza: la consapevolezza femminile della propria condizione, la consapevolezza della nostra condizione ed una consapevolezza collettiva su cosa sia necessario fare per liberare un reale cambiamento sociale. Ecco perché Comizi di Donne, nel suo apparire poco sofisticato e provvisorio, si dimostra come un manifesto dal presente.
Maria Teresa Annarumma
Comizi di Donne è stato generosamente sostenuto da Opera Pia Purgatorio ad Arco onlus Grazie per la collaborazione a:
“Associazione Amici di Carlo Fulvio Velardi” onlus
“Associazione Madrigale per Lucia” onlus
“Associazione sportiva “Champion Center la Scampia che Vince”
Ringraziamenti speciali a:
Cinzia Mastrodomenico per il supporto e l’amicizia dimostratami
Caterina Cibelli per la sua generosa disponibilità
Michele Federico per la sua passione nel processo di editing