Comizi di Donne. Partendo da Pasolini: la condizione femminile nella società.
Opening 10 febbraio 2022 ore 17.00
Un’opera d’arte, non conta quanto antica o classica sia, diventa effettivamente tale quando è vissuta nell’esperienza individuale. (…) Ma in quanto opera d’arte, si ricrea ogni volta che se ne vive la sua esperienza estetica”.
“Nell’arte, come nella natura e nella vita, le relazioni sono il modello di interazione. (..) Ma esistono azioni ed interazioni in cui le cose si modificano. L’arte esprime, non afferma; si connette con le esistenze nelle loro qualità percettive, non in termini di concetti simbolici. Le relazioni riguardano l’affetto e gli impegni, di rapporto, di generazioni, influenze e cambiamenti reciproci. La relazione, in questa maniera, va intesa come modo in cui definire le forme d’arte.”
(John Dewey, “Art as Experience”, 1934)
Ho incontrato questo libro e gli scritti di John Dewey durante il mio impegno come guest researcher al MacBa di Barcellona nel periodo in cui studiavo il modello di museo sviluppato da Manuel Borja-Villel nel suo percorso come direttore de il MacBa e successivamente quando lo è diventato del Reina Sofia in Madrid.
John Dewey fu un filosofo americano dell’inizio del XX secolo e oggi, nonostante da allora sia stato tanto teorizzato in tema di arte e relazione, argomento che ho già trattato all’inizio di questo progetto e da autori come Craigie Horsfield, è palesemente triste che dopo quasi un secolo le sue intuizioni sono ancora lontane dall’essere largamente accettate e soprattutto lontane dall’essere vissute.
Nel 1934, Dewey si domandava sul significato di museo, di arte e di mostra e, sul tipo di influenza che potevano esercitare in un paese che, si stava lentamente riprendendo dalla Grande Depressione del 1928 e dalle sue devastanti conseguenze economiche. Chiaramente, scrive non molto prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale che inevitabilmente cambiò in maniera determinante lo scenario a cui si riferiva, ma quello che anticipa e quello che voleva raggiungere può essere percepito come qualcosa che, anche se nascosto, aveva molto in comune con due artisti il cui lavoro fu molto influenzato dalla guerra e dalla successiva fase di ricostruzione, seppure con le sue contraddizioni e implicazioni rivoluzionarie.
Due artisti di due differenti, allora divise, regioni europee, che furono parte di quello che ora possiamo definire il rinascimento artistico e culturale a est e ovest del vecchio continente e che, fu seguito da una crisi delle ideologie e della coesione sociale.
Attraversando questo flusso, Pier Paolo Pasolini e Jerzy Grotowski cercarono di trovare, non solo un linguaggio, ma anche un modo di pensare e di essere che fosse capace di rispondere ai profondi quesiti che ognuno di loro aveva riguardo la dimensione individuale e sociale del soggetto.
Infatti, se Dewey stava provando ad aprire la percezione delle persone nei confronti dell’arte, Pasolini e Grotowski, di fronte alle rovine del secondo conflitto mondiale e di fonte ai due modelli
politici stabiliti dai vincitori, che si stavano iniziando ad affermare nella fase del dopoguerra ( capitalistico in Italia e socialista in Polonia), immaginarono che per attivare il tipo di percezione solo auspicata dal filosofo americano, fosse necessario cominciare da un radicale processo di cambiamento di consapevolezza. Presero prospettive molto diverse ma, in entrambi i casi, giunsero a interpretare l’arte e la sua produzione nel suo significato relazionale, nel significato che cerca connessioni concettuali con il tempo, la storia e la società. Vedremo che, nonostante i loro differenti percorsi, si possono intravedere elementi in comune nelle loro ricerche, molto più di quanto non si sia mai affermato. Entrambi si spinsero costantemente oltre nelle loro ricerche artistiche, nel tentativo di trovare una soluzione formale alla loro visione (che forse trovarono), mentre le strutture politiche e le ideologie di società nelle quali vivevano, iniziavano a destabilizzarsi per via del susseguirsi di fratture e fallimenti che si erano già ereditate negli anni immediatamente dopo la guerra.
È un pensiero inquietante quello che ci fa rendere conto che oggi, in un tempo in cui sembra che così tanto sia cambiato, stiamo vivendo le eredità corrosive di quel mondo a cui Pasolini e Grotowski cercavano di dare significati. Il conflitto fra est ed ovest, la ancora frammentata e irrisoluta interrelazione fra individuo e collettività, i chiari fallimenti dei sistemi di governo di fronte a pandemie e conflitti e le crudeli diseguaglianze sembrano, infatti, diventate persino più grandi di allora, come un cancro che sta lentamente mangiando la nostra società.
Di fronte ai modelli modernisti in cui la politica sembrava abbandonare secoli di cultura europea, in quella che Pasolini percepiva come una frattura anche individuale oltre che sociale, questi autori decisero di usare l’arte come strumento per andare oltre quello che stava accadendo, quello che si percepiva come un’ impossibilità del loro presente e, lo fecero scegliendo di sperimentare modelli di consapevolezza collettiva ed individuale per far emergere quella che era, ed è, la realtà presente e sofferente, sotto il mondo compromesso che abitiamo.
Non affermerò che abbiano raggiunto dei risultati definitivi con le loro ricerche ma, credo che oggi sia importante riappropriarsi di alcune delle loro scelte artistiche e metodologiche, in un periodo in cui i compromessi che al loro tempo erano solo agli inizi, sembrano essere giunti a compimento, creando crepe nel mondo e dove i cambiamenti di cui avevano solo visto il nascere, e che già contestavano, hanno portato ad una serie di crisi ripetute con severità sempre maggiore.
Come ho già detto, Grotowski iniziò a lavorare in una società in cui si stavano realizzando grandi cambiamenti culturali, in un periodo di rinascimento non facile a ripetersi. Provocato dal predominante imperativo della ricostruzione che ha formato l’immediato dopoguerra in Polonia, con l’arrivo al potere di quello che a tutti gli effetti poteva essere definito come un governo proto-nazionalista nato a seguito della morte di Stalin, ci fu un brillante fermento culturale per un periodo di circa quindici anni, che si indirizzo soprattutto nel campo delle arti performative, della musica e del jazz, nel cinema ed in maniera significativa, nel teatro. Il teatro, i teatri tradizionali, il teatro folk, l’opera e l’operetta, i cabaret politici ed I teatri studenteschi, in un flusso culturale che si muoveva con una crescente libertà d’azione fra stato e chiesa, i due poteri conservatori che dominavano il paese.
Fu proprio in un teatro studentesco che Grotowski sviluppò per prima la sua interpretazione radicale di cosa il teatro e l’arte potesse essere, un modo di pensare che avrebbe influenzato il teatro in Polonia per diverse generazioni. Questo stadio del lavoro di Grotowski, preannunciava, da un certo punto di vista, quella che ancora non era ma, sarebbe stata la crisi che si auspicava. Si trattava di un lavoro sempre più fisico, visuale, fatto di eventi e confronti. Lungo un periodo relativamente breve, il lavoro si concentrò sul rompere le separazioni fra gli interpreti e gli spettatori, diventando sempre più fisico ed urgente, nel tentativo di creare istanti di vita, di sentimenti e conoscenza condivisa. Grotowski, inseguendo la sua tormentata ricerca finalizzata a rompere i muri, lasciò la Polonia per l’America, irruppe la scena del teatro sperimentale di downtown New York negli anni ’60 con la sua visione quasi viscerale di teatro. Il più famoso dei suoi gruppi teatrali fu “The Living Theatre” e la sua influenza vive fino ad oggi in gruppi come il Wooster Group di Liz Leconte. Allo stesso tempo però, si trovò di nuovo davanti a una forse inevitabile crisi e, con una scelta che all’epoca sorprese molti, lasciò New York per l’Italia.
Le sue ricerche arrivarono ad un punto in cui il suo lavoro iniziò a prendere significati che andavano oltre il teatro alternativo. In Italia, la sua ricerca si indirizzo in maniera più radicale verso un linguaggio, un metodo, un modo d’essere capace di cancellare ogni forma di separazione e, ogni cornice concettuale e tecnica che solitamente sorregge il teatro e la performance. Cercava di capire come riuscire ad articolare, quello che possiamo immaginare come un co-essere che si realizza tra spettatori e performer nell’istante del divenire dell’arte. Questa definizione può sembrare metafisica ma, non lo era, perché la immaginava all’interno della sfera del vivere quotidiano. Naturalmente, i suoi interpreti non riuscivano ad arrivare a questo “altro essere” che Grotowski cercava di raggiungere nelle sue teorizzazioni. Alcuni ritennero che fosse impazzito o che stesse cacciando una chimera, correndo dietro a qualcosa non avrebbe mai potuto essere. Per me, come per molti altri, questo periodo del suo lavoro ci porta a domande profonde sull’esperienza del raccontare il mondo, domande sul significato di protagonismo e autorialità e quello di performance, come pure su chi crea arte e sul suo significato. Tutte queste domande si legano profondamente al lavoro di Pasolini che però, prese una traiettoria molto differente.
Si può dire che per Grotowski le arti performative sono lo strumento per trasformare la percezione e la presenza dell’artista, in un processo immaginato attraverso due differenti passaggi: la presa di coscienza dell’artista che si suppone cancelli ogni tipo di tecnica per avvicinarsi il più possibile allo spettatore e, il processo di presa di coscienza dello spettatore verso un’esperienza diretta ed intensa di relazione con l’arte nel suo farsi.
Questo è probabilmente il punto in cui Pasolini arriva più vicino agli sperimenti Grotowski nel suo processo di sviluppo del significato di autorialità: Pasolini decide di avere nei suoi film (quasi sempre) attori non professionisti, infatti non-attori, per creare una conversazione senza filtri con le persone e con le loro storie, e il loro mondo diretto ed immediato, rendendo loro stesse creatrici dell’opera.
Però, credo sia importante capire il contesto in cui Pasolini è giunto a queste conclusioni e anche capire perché Pasolini e Grotowski siano così importanti e quanto lo siano per questo progetto: Pasolini infatti, è stato l’inizio di Comizi di Donne come la sua fine, seguendo in parte un’interpretazione dell’autore friulano fatta da Horsfield, così come ho già descritto nel testo precedente. La mia lettura è probabilmente leggermente differente ma credo, sia particolarmente utile capire l’idea di storia di Pasolini se la si legge affianco al lavoro di Fernand Braudel e gli storici sociali della “longue durée”, teorie che si stavano sviluppando infatti, nello stesso periodo storico. Pasolini credeva fortemente di vivere in un periodo di cambiamenti culturali e sociali catastrofici, in cui la vita ed i modi di essere che avevano sostenuto il mondo, generazione dopo generazione, dalla vita dei lavoratori a quelle dei contadini, del duro lavoro quotidiano di quelle vite a lungo tralasciate ma che reggono la storia vera, era stato distrutto nel corso di una sola generazione. Il significato di “longue durée” prende gli stessi significati di mondo profondo e trascurato che appare sullo sfondo come folla indefinita, come la fanterie negli eserciti o come contadini nei campi.. e come nelle case per il lavoro svolto nella dimensione domestica. Per questi storici, la documentazione di questa storia profonda può essere rintracciata nei registri delle corti ecclesiastiche, in quelli delle tasse o attraverso le cronache casuali dei piccoli e sconosciuti villaggi. Un mondo intero visto attraverso le fessure, attraverso il materiale disorganizzato e non esaminato delle corti regali, dei grandi eventi, dei politici, dei generali, dei vescovi, tutto quello che giace sotto il mondo che si suppone dei governanti.
Da ciò, si può vedere la relazione con il punto di vista di Pasolini. Credeva che attraverso questo mondo senza mediazioni si potesse scoprire una diversa sfera dell’essere e dell’esperienza da quella che stava distruggendo tutta una storia secolare dalle sue fondamenta, per via di un ostinato atteggiamento ignorante. Non è certo un passo troppo lungo arrivare a vedere il lavoro di Pasolini con i non-attori in parallelo con parte del teatro pre-moderno, anche se in maniera diversa da quella della nozione più famosa di teatro di Brecht. Gli interpreti di Pasolini in realtà sono più vicini ai figuranti delle processioni dei santi: il direttore di banca come Ponzio Pilato, il falegname come san Giuseppe.. e così via. Gli spettatori li riconoscono come vicini e la loro performance funziona in questa maniera anche come lettura allegorica. Anche quando c’è una selezione di attori o artisti conosciuti, questo avviene per ottenere significati differenti all’interno della cornice concettuale del dramma che sta sviluppando: la famiglia, gli amici o i conoscenti, portano un carico di significati intrinsechi che diventano significanti all’interno della struttura narrativa. Ancora più, Pasolini è attratto dai racconti, quelli che vengono da culture diverse e tramandati e ascoltati nel corso dei secoli e attraverso diverse società. È il tessuto de “Il Vangelo Secondo Matteo” che abbiamo visto vividamente nella nostra prima video installazione e che divenne parte centrale dei suoi lavori da regista. In quegli anni Pasolini fu anche molto frainteso: da il Decameron di Boccaccio, ai Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, a “Il fiore delle mille e una Notte”, tutti questi film si originano e seguono la chiave poetica nata con il “Vangelo secondo Matteo”. Queste sono le storie degli astanti ai piedi della croce, i pescatori, i falegnami e i contadini. Il mondo è raccontato dalle voci e dalle cronache non raccolte dalla storia ufficiale. Un mondo in attesa di uno spazio di risonanza, un’emancipazione dallo stato di inferiorità imposto dalla narrazione ufficiale. Pasolini è mosso dalla vita nascosta di generazioni di persone, e per seguirle, ricerca di un linguaggio che dia loro l’autorialità, una possibilità non per attori ma, per le vite e le persone di fare ed esprimere le loro volontà, le loro storie e le loro vite. Una scelta radicale che ricerca il proprio linguaggio.
Da ciò potremmo dire che Grotowski può essere descritto come colui che ha lavorato per generare un processo di esperienziale individuale per il pubblico e per gli interpreti all’interno dello spazio sociale del teatro – fino alla scelta di fare un passo fuori da ciò che era conosciuto. Un processo di consapevolezza personale che potremmo definire “verticale” (immediato, nell’istante, urgente, fisicamente presente ma personale), mentre, nel caso di Pasolini è un processo collettivo, che accade e cerca una dimensione relazionale che potremmo definire “orizzontale”. Quello che è certo e che per ciascuno di loro la spinta era verso una esperienza sentita di arte correlata ad una conoscenza della storia, in un processo di scambio reciproco fra “spettatore” e “narrante”, come una conversazione condivisa che si realizza proprio nel suo divenire fra le parti.
Questa descrizione è importante per capire come Comizi di Donne sia progetto d’arte contemporanea e quale siano i suoi scopi. E’ immaginato per mostrare le radici della vita e della creazione artistica al fine di promuovere un differente approccio al lavoro curatoriale, un modo di pensare e di lavorare che condivide la stessa volontà di Grotowski e Pasolini: capire l’arte all’interno di una conversazione con il mondo.
Naturalmente, ci siamo allontanati molto da Dewey, Braudel e Pasolini, viviamo un tempo diverso ma, così come vedremo nella parte finale di Comizi di Donne, ciascuno di loro ha un significato presente per il lavoro che faremo.
Se sosteniamo la necessità di una presa di coscienza collettiva ed individuale come punto di partenza per la vita e la creazione artistica, la nostra società, che è in costante trasformazione, necessita una pratica capace di rispondere sia a noi stessi che agli altri che al mondo condiviso che auspichiamo di creare.
Questo è quello a cui gli artisti, le mostre ed i curatori dovrebbero guardare, e una delle grandi possibilità che noi diamo all’arte è proprio quella di poter essere sempre più incisivamente uno dei modi in cui poter immaginare alternative al mondo che viviamo. Il mondo così tanto ferito dalla pandemia ma anche di più dal fallimento dei modelli sociali predominanti, fallimenti esacerbati dalle malattie e dalla guerra, ma anche dall’esaltazione del singolo e delle individualità su tutto. Quest’ultimo punto, relativo all’enfasi attribuita alle individualità -cosa che va soprattutto a vantaggio dei ricchi e dei potenti- produce una divisione nella consapevolezza personale che sminuisce sia la possibilità di vivere un’esistenza comune e condivisa sia la realizzazione piena del singolo nel mondo e in sé stesso. Senza contare che il singolo, isolato da una piena ed equa partecipazione nel mondo, non potrà mai rendersi conto della propria condizione.
Comizi di donne parte da questa consapevolezza e la trasla verso la condizione femminile, che ha conosciuto lungo tutta la storia, un processo di sfruttamento sia culturale che economico. Il lavoro di rammendo diventa mai come ora urgente: abbiamo bisogno di un’opera di cura agli strappi profondi provocati al tessuto della società e alle separazioni che frammentano il mondo, gli spazi del vivere comune come pure le singole individualità. Certo, molto si è fatto ma, guardandoci intorno, nel terzo decennio del XXI secolo, vediamo che c’è ancora molto da fare! È come se tutto ciò che si è conquistato si fosse fermato e sia iniziato ad essere perduto, mentre allo stesso tempo tanto intorno a noi sembra invece cambiato.
Questo avviene non solo per un “assottigliamento”, un indebolimento della coerenza, della consapevolezza personale e collettiva, ma anche perché sembra che il discorso sia stato assorbito in una percezione comune in cui si parla della condizione femminile solo nei casi estremi di violenze, abusi sessuali o in termini di femminicidi. Però, oltre questa narrazione, c’è un’incessante quotidiana battaglia economica e sociale delle donne di tutto il mondo. Tuttavia, se rimaniamo attenti e guardiamo ciò che accade al di là delle notizie relative all’ennesima crisi e al di là delle suggestioni che provocano, potremmo scoprire correnti di pensiero e di azione che possiamo immaginare come il punto di partenza per un nuovo dibattito, un nuovo campo comune. Si tratta di un potenziale che sia Braudel che Pasolini avevano capito: è necessario guardare alle comunità che vivono lo spazio comune del quotidiano non raccontato e spesso inaspettato, nell’intimità, in modo che, non solo sia possibile capirne le battaglie ma, anche quanto queste possano essere anticipatrici e portatrici del nuovo, di una nuova repubblica. Noi vogliamo credere che l’arte, tra le tante cose che può fare ed essere, possa aprire percorsi per intravedere nuove possibilità per questo mondo, sia attraverso i suoi soliti canali espressivi ma anche e forse soprattutto quando genera pensiero e azioni. Ciò giunge a quello che Dewey aveva presagito nei suoi scritti, riconoscendo la reale portata del capire l’arte in relazione e di conseguenza su ciò che l’arte può essere.
Il prossimo capitolo del nostro progetto si aprirà a queste domande e noi cercheremo di darne risposte radicali.
Maria Teresa Annarumma
“Nuova Repubblica Napoletana” di Marco Messina è prodotta da “Opera Pia Purgatorio ad Arco O.N.L.U.S.
“Opera Pia Purgatorio ad Arco” O.N.L.U.S. ringrazia l’Ing. Prof. Alberto Gaetti per la generosa collaborazione.